giovedì 17 novembre 2011

Ottobre 2005

lunedì, 24 ottobre 2005

In ricchezza e povertà, in salute e malattia, in gioventù e vecchiaia.

Non ci siamo scelti, è stata una questione di convenienza, di interesse se vogliamo. Perfetti sconosciuti, mai visti prima: e abbiamo finito per passarci una intera vita, insieme.
Lui ben più vecchio di me, già in età, non di bell'aspetto - per quanto, all'inizio, ancora robusto e con lo sguardo fondo - e nemmeno si poteva dirlo simpatico o alla mano, piuttosto silenzioso e burbero. Eppure poi ci si affeziona.
Se ci pensi anche a un cane ti affezioni, o a un gatto, persino a un pesce nella boccia se ci passi vicino tanto tempo: e come potresti allora non affezionarti a un uomo che - anche guardando bene tutti i suoi difetti - è l'unico che per la vita hai avuto accanto?
Sarà anche il fatto che diventa un'abitudine, e delle abitudini è così difficile pensare di poter fare a meno.
Sarà che quando una persona è la prima che vedi la mattina, gli occhi ancora impiastricciati di sonno e i capelli tutti arruffati dal cuscino, e l'ultima che vedi prima di dormire, quando dopo aver chiuso le porte e le finestre al mondo è l'unico altro cuore che batte nella casa, quello con cui a mezza voce scambi l'augurio di dormire bene in grazia del Signore, come fai a non sentire che è vicino, anche se non l'hai voluto e scelto, anche se gli sei stata assegnata?
E tutta l'intimità che porta l'esistenza insieme, i rumori e gli odori, e il lavargli lenzuola e calze e le mutande, e conoscere ogni soprassalto e debolezza, e il cucinare apposta qualcosa di leggero quando ti pare un pochino costipato e invece qualche cosa che gli piace, qualche volta, perché una piccola golosità ogni tanto capisci che lo fa contento.
Non che non mi abbia mai fatto arrabbiare. Morire di rabbia mi facevano a volte quei silenzi, certi gesti bruschi, tante trascuratezze. Mica per cattiveria, si sa, per distrazione, per l'essere sempre così astratto, perso dentro tutti i suoi pensieri. Mi facevano rabbia le macchie sul soprabito fatte per noncuranza, a volte anche gli strappi: con tutta la fatica che facevo, pensare che la gente dicesse che non lo tenevo bene, che non lo curavo a modo.
E poi mi sarebbe piaciuto un po' più spesso fare due parole, la sera, magari con un biscotto e un bicchiere di vino: non parlare del suo lavoro, no, quello è un segreto sacro e io l'ho sempre rispettato, ma parlare un po' di più, così, per compagnia. E lui diceva "Eh, le donne, non vogliono che chiaccherare" e io un po' ci rimanevo male. Che poi invece a volte, quando capitava, anche lui si capiva che si divertiva, a sentir raccontare del paese e dell'orto e le galline e di tutte le faccende della gente che me le veniva a riferire. Quelle sere lì con la stufa a descriver la giornata, a sorriderci sopra persino, per me erano un po' una festa e me ne andavo a dormire tutta riscaldata. E anche lui, lo so, anche se non me l'ha mai detto.
Ci sono state poi anche le altre cose anche se, forse perché è passato tanto tempo, mi sembra non siano poi così importanti.
Non è stato in una sera d'inverno, perché col buio e il freddo fuori a me piace andare presto a dormire, e leggere: mi sono sempre piaciute le novelle, quelle romantiche, d'amore, con tutto che sembra finir male e poi invece alla fine son felici, e anche qualche giallo, anche, ma non quelli violenti che mi fanno venire i brutti pensieri. Leggo e mi addormento subito, di colpo, con quel bel freddo gelato nella stanza e il tepore sotto le lenzuola.
No, è stato d'estate, un'estate così afosa come da tanto qui non si vedeva, col sole che di giorno ti bruciava addosso come un ferro da stiro, con lo stesso odore, e nemmeno tutta la notte bastava a far sciogliere quel caldo in un respiro d'aria nuova. E io che da notti intere non dormivo per via di quel calore immobile da forno, giravo per la casa inebetita, senza riuscire a concludere una cosa. Dalla porta della camera gli avevo visto i piedi, ho visto che era sdraiato sopra il letto. Mi sono spaventata, che non si era mai visto dormire al pomeriggio, ho pensato che forse stava male, e sono entrata. Dormiva, sì, mi è parso, ma aveva tutto quel sudore che gli bagnava la faccia e attaccava i capelli, già pochi, sulle tempie. Mi è venuto da ravviarglieli, o forse da sentire se era febbre, neanche ci ho pensato, ho allungato la mano sulla fronte e lui l'ha presa: e senza aprire gli occhi mi ha detto "Si riposi, anche lei, un pochettino."
Stremata dal caldo e stupida di sonno mi son lasciata cadere su quel letto, addormentandomi nello stesso istante, mentre ancora la sua mano mi teneva. Mi sono risvegliata - ma forse non del tutto - ore dopo, nel suo goffo abbraccio.
È successo poi altre volte, ma nemmeno tante: siamo persone lente, tutte e due, non abbiamo mai saputo cosa sia la frenesia o l'ansia. Ci somigliamo, in questo: o può essere che siamo venuti a somigliarci col tempo, stando insieme.
So che queste son cose di peccato, che non andrebbero dette e nemmeno mai pensate, eppure non mi è mai sembrato di peccare, io che per una bugia o un gesto sgarbato mi dovevo andare di corsa a confessare. Lui non mi ha detto che era male, del resto, anzi non me ne ha mai proprio parlato, nemmeno una parola. Succedeva così, ogni tanto, come vengono senza un perché certe cose di natura: una nevicata, una notte di pioggia, un pomeriggio inaspettato un temporale.
Poi sempre meno, che si diventa vecchi, e adesso mi pare strano poter meritare l'inferno per qualche ora di tanto tempo fa.
Adesso quel che penso è di fare che nessuno si accorga quanto è anziano, e che fatica fa. Lo tengo bene, sempre ben pulito, e quando vedo che a parlare è stanco dico che ha solo un po' di mal di gola.
Le cose che deve dire le sa a memoria da così tanto tempo che non le scorderebbe nemmeno se volesse, questo non mi fa paura. Mi spaventa solo che qualcuno decida che è troppo vecchio e stanco e lo metta in una di quelle case di riposo, dove morirebbe da solo, dopo che per così tanti anni non ha passato un giorno senza me (anche se, a pensarci bene, non è facile che qualcuno che non sia un paesano se lo ricordi, che lui è ancora in questo mondo).
Perciò prego che il buon Dio lo faccia morire per primo, avanti a me: basterebbe un giorno o anche solo un'ora, perché so che lui non saprebbe proprio cosa fare, se me ne andassi io. Non ho mai chiesto cose al Signore, perché non mi è mai venuto in mente niente, così spero che questa cosa me la possa regalare. Bisognerebbe che non ci mettesse troppo tempo, anche, perché sono tanto vecchia anch'io, oramai. Dopotutto l'idea di riposare, dopo questa vita così piena di cose e di faccende, mi pare una cosa da esser soddisfatti.
E qualche volta anche penso, quando leggo quei romanzi di tanto sentimento che mi piacciono ancora così tanto, che chissà come sarebbe stato amare qualcuno, così come si legge. Non mi è mai successo, le storie d'amore sono cose - lo sa benissimo chi ha letto tanti libri d'amore come me - fatte per chi è bello: e anche per loro, solo in gioventù. E io bella non lo son mai stata, nemmeno da ragazza.
Ma a volte mi chiedo: chissà come sarebbe stato amare un uomo, e poi sposarsi e avere un tuo marito. E non ci riesco, non me lo so proprio immaginare, io, che ho fatto solo la perpetua.

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mercoledì, 19 ottobre 2005

Ma dove andiamo, marinai

Di solito mi sveglio una mezz'ora, tre quarti d'ora più tardi. Ma in periodi come questo, di lavoro furibondo, metto su la caffettiera e accendo la luce e la radio tra le cinque e mezza e le sei del mattino.
In questo tempo dell'anno è del tutto buio, a quell'ora, e c'è un momento, più o meno quando inizia a salire il caffè, in cui viene trasmesso il bollettino del mare.
Nella bella stagione dalla tazza si beve seduti sulla soglia del terrazzo e si guarda l'aurora, ma ora che l'alba è ancora lontana il caffè lo bevo appoggiata al davanzale dell'altra finestra, dove c'è il calorifero, e ascolto la radio. Devono aver spostato l'orario, di quel bollettino, perché mi ricordo benissimo che lo sentivo da bimba, quando certo non mi alzavo a ore così antelucane e allora si chiamava Avvisi ai Naviganti.
Era un incanto tanto strano la lentezza scandita con cui davano le notizie che avevo chiesto il perché parlassero in quella maniera, ricavandone la meravigliosa spiegazione che dovevano dare il tempo a chi ascoltava di prendere nota. Facevo colazione ascoltando affascinata i venti deboli in rinforzo sud est sul quadrante settentrionale - mare mosso in aumento - agitato sul canale di sicilia - e pensavo ai naviganti.
I naviganti prendevano nota, in piccole stanze ondeggianti rivestite di ferro e di legno, circondati dal buio del mare. I naviganti avevano barbe corte e incolte e berrettini di lana calati sulle sopracciglia, e prendevano nota su un blocco, concentrati ma anche contenti di quella voce di donna così attenta e seria, e lenta a dettare.
Anche adesso penso ai naviganti, quando ascolto il bollettino che gli anticipa quali onde e quanto grandi, da quale parte tirerà il vento e se sarà una giornata di quelle cattive. È sempre uno lì solo, per me, quello che ascolta: gli altri dormono o hanno altri doveri e lui è da solo in una cabina a prua un po' in alto, una lucina gialla sul mare.
Io non so niente di navigazione, so solo il ricordo di una volta che mangiando un gelato sulla banchina ho visto entrare nel porto canale una nave con insegne in cirillico, una scatola lenta di ruggine e vernice mal data e rappresa: sparpagliati sul ponte pochi, pochissimi uomini per una nave grande così, in piedi in maglietta con le facce senza espressione e un filo di biancheria stesa che si asciugava appassendo.
E non so niente di marinai tranne una volta di molti anni fa quando tornando da sola su un lungo traghetto notturno, dopo essermi aggirata per scalette e ponti cercando un posto sulla moquette marezzata dove mettere il mio sacco a pelo senza essere troppo calpestata dall'andirivieni, mi ha chiamato un marinaretto giovane quanto me, dicendomi con perfetta semplicità che se volevo potevo dormire nella sua cabina, potevo.
E lì ci ha svegliato, ben prima dell'alba, un suo anziano capo, ridendo cavernoso nel vederci abbracciati più che per un residuo di amore per la quasi impossibile strettezza di quella cuccetta e intimandogli, non senza una battuta oscena - anche giustificata alla luce dei fatti - di essere sul ponte entro cinque minuti.
La mattina, quando è ancora notte, bevo il caffè con i venti moderati in aumento, penso ai naviganti e ascolto i camion nel buio che passano senza che io li veda, con un rombo soffiato sulla statale, penso che anche loro sono dei naviganti e anche noi, in quell'ora pesante prima del giorno, con quello stringersi di solitaria stanchezza nelle tempie e sulla cima degli occhi, con quel sapore di petrolio e metallo, e l'odore di sigaretta, di nafta e di sale.

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lunedì, 10 ottobre 2005

Infinite pets
“Io non volevo gatti e ne ho qui sei. O vieni a prenderli o li annego nel water.”
“Certo, mamma.”
Convinta dal tono di gentile esortazione della telefonata mi sono fatta forza e sono andata a ritirare la gatta e i cinque micini. Ero stata informata del fatto che “avevano qualche pulce” quindi ho debitamente messo le goccine tra le scapoline, ma appena li ho estratti dalla cesta mi sono resa conto che quelle due gocce sarebbero servite a ben poco. Così, a mali estremi estremi rimedi, ho deciso di lavarli.
In realtà ho tratto ispirazione da quella favola che parla della volpe furba che per eliminare le pulci si immerge nel fiume lentamente, così tutte le bestioline in fuga si rifugiano accalcandosi sul naso che poi all’ultimo lei trattenendo il fiato fa d'improvviso sommergere dalla corrente, eliminando in un colpo solo tutti gli indesiderati.
Bene, le favole sono perlappunto favole: le pulci non scappano, anzi, si nascondono con cura nel folto del pelame e vanno eliminate manualmente, semiannegate ma indomite.
Colgo l’occasione già che ci siamo per sfatare anche la leggenda che i gatti non sopportino l’acqua: immersi nel lavandino colmo i micetti, dopo un attimo di sconcerto, a sguazzare nel caldino ci si son trovati benone, lasciandosi spulciare placidamente, rilassati e molli in mano come straccetti pelosi. Erano orrendi subito dopo il trattamento, naturalmente, vermiciattoli viscidi e spennacchiati, ma dopo mezz’ora al sole sul terrazzo erano uno splendore, vaporosi come piumini da cipria.
La cosa che si nota, comunque, è che cinque gattini corrispondono, percettivamente, a un numero infinito di gattini.
Dal momento infatti che gli esserini sono costantemente in moto, in qualunque momento e in qualunque punto della casa uno guardi vede almeno un gatto. Il fatto che siano cinque o cinquemila, o uno solo ubiquo, perde quindi del tutto importanza, e questo ci potrebbe dire alcune cose molto importanti sul funzionamento dell’universo, se non fosse lunedì mattina.
E se i miei sogni non fossero tanto popolati da animali, ultimamente.
Svegliarsi da sogni in cui nuotano delfini somiglianti a rospi o ansimano istrici piumati è impegnativo, mi si creda. Doversi svegliare, è impegnativo.

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venerdì, 07 ottobre 2005

Opachezza, ma anche lustrità.

Ci sono giorni che ti alzi e sei opaco e greve, tutto pesante e informe, grigiastro e ben più che un po' fangoso, a masticarti. Hai gli occhi vuoti e una punta di lingua appena sporta, in inane intontita mancanza di riflessi. E ti lasci trasportare, come un tronco inerte, sulla schiumosa corrente bassa che si arriccia attorno a sassi inutili, disposti senza senso.
E ci sono giorni che germogli e sorgi lustro, leggero e tutto illuminato, palpiti liscio, pulito e trasparente. Hai occhi enormi tutti sfaccettati, succhi ogni odore e ogni sapore sulla pelle. E muovendoti senti di creare un vortice, soffio d'aria sottile piena di pulviscolo, di cui sei il centro mobile e spazioso.
Cerchi di capire se dipenda dal clima, o dal lavoro, se influisca quello che hai mangiato o quanti sorrisi hai procreato il giorno prima.
Ma non c'entra niente: è che siamo bruchi e farfalle, prima e dopo, e nel mezzo notti immote e avvoltolate di crisalide.
Condividiamo, ripetuto cento e cento volte, il ciclo di qualunque cavolaia.

Postato da: sphera a 10:14 | link | commenti (9)


giovedì, 06 ottobre 2005

Scoop
Stavo pensando pensieri piovosi, noiosi e appiccicosi come lumaconi senza guscio.
Tra questi, una domanda: se una delle vecchie e sacrosante regole del giornalismo rammenta che si ha notizia laddove il cane morda l’uomo e non viceversa, allora io mi chiedo perchè continui a essere impaginata e titolata come notiziona il fatto che le alte gerarchie ecclesiastiche siano contrarie alla pillola abortiva (o, se per questo, alla pillola in generale, all’aborto in generale, al matrimonio tra gay, alla gola, alla pigrizia, alla lussuria, all’accidia).

Postato da: sphera a 11:36 | link | commenti (7)


mercoledì, 05 ottobre 2005

Per esempio, a me non spiacerebbe affatto vivere di espedienti.
Solo che non me ne viene in mente nessuno.

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